ÆTERNA
Fabio Pellicano Roma e la Romanità
Dal dialogo tra forma e luce prende il via la mostra che Fabio Pellicano dedica a Roma, o meglio alla romanità.
Statue classiche fotografate avvolte interamente dalla luce, che assume un proprio spessore, possono essere ammirate in tutta la loro completezza e plasticità, come fossero in movimento. Accostate a reperti archeologici e monumenti rappresentati come architetture testimoni di un grande passato, ma private del dramma della perdita, come strutture a se stanti, dove la forma e le proporzioni sono le sole artefici di tanta bellezza.
Grazie alle sofisticate e complesse tecniche usate da Pellicano, infrarosso, ricorso a speciali obiettivi, tempi d’esposizione rallentati e, soprattutto, al sapiente uso della luce - quasi un elemento costruttivo - le fotografie esposte ci restituiscono una romanità classica ma insolita, più algida e ordinata, quasi senza tempo.
Un ponte tra il vecchio modo di sentire l’antico, caro al Novecento, dove la fascinazione era stimolata dal frammento e dal reperto, e un nuovo modo di guardare le opere del passato, più disposto ad accettare il valore della bellezza nella sua forma anche se contaminata o parziale. L’artista ci testimonia cosi la grande capacità di questa metropoli dell’antichità di rigenerarsi e di continuare a essere protagonista anche nell’immaginario attuale.
Patrizia Piccioli
Fabio Pellicano
BIOGRAFIA IN BREVE
Fabio Pellicano è un pittore e fotografo.
Nato a Roma nel 1965. Appassionato di natura, architettura, archeologia e astronomia. Ha organizzato diverse mostre sul tema della perdita della biodiversità, della conservazione del patrimonio culturale e del rapido cambiamento dell'ambiente dovuto alle attività umane utilizzando diversi media come la pittura e la fotografia.
Collabora con il W.W.F. FONDO FAUNISTA MONDIALE e SAVE THE OLIVE.
Come pittore astratto fonde gesti automatici, disegni e scelte cromatiche intuitive per esprimere la sua profondità inconscia.
È pronipote di Francesco Maria Pellicano, deputato al primo parlamento italiano, e di Clelia Romano Pellicano, detta "Jane Gray", scrittrice e giornalista politicamente impegnata dei primi del '900, essendo lei nipote del generale Giuseppe Avezzana che combatté per l'indipendenza italiana con l'eroe nazionale italiano Giuseppe Garibaldi. Laureato in Scienze Politiche, nel 1990 si trasferisce a Parigi per lavorare come grafico per Walt Disney fino al 1993. Dopodiché Fabio decide di dedicarsi a tempo pieno alla carriera di artista indipendente.
Vive e lavora in Italia tra Roma e Tricase
Foto Leda Calza
MOSTRE
Agosto 2023 Lo spazio e il tempo Tricase
Novembre 2019 Galleria Arthus Bruxelles
Dicembre 2018 ''Animalmente'' Centro studi Cappella Orsini Roma Italia
Settembre 2018 Giovinazzo in fuga
Marzo 2017 Galleria Ventoblu Polignano a Mare Italia.
Novembre 2016 Galleria Arthus Bruxelles Belgio
Marzo 2016 Galleria Philippe Heim Pavillon Des Arts et Design Parigi Francia
Octobrer 2015 SABEXPO Ancienne Nonciature au Sablons Bruxelles Belgio.
Maggio 2015 Galerie Boyrie ANTIQ'ART Salon des Antiquaires et de l'Art contemporain de SAINT-JEAN CAP FERRAT Francia.
Novembre 2014 François d'Ansembourg Antichità Bruxelles Belgio.
Marzo 2014 La Verand'Anne "Esprits de la montagne" Gstaad Svizzera.
Maggio 2012 Galleria Idearte Ferrara Italia.
Ottobre 2011. Arthus Gallery Bruxelles Belgio.
Marzo 2011 Vende un dipinto da Sotheby’s Milano Italia.
Ottobre 2010 Museo Crocetti Roma Italia.
Giugno 2010 Galleria Spazio Palmieri 30 Lecce Italia.
Marzo 2010 Centro Culturale Les ecuries de Waterloo "Paradise Lost" Waterloo Belgio.
Novembre 2009 Membro Firma Artisti per la conservazione.
Maggio 2009 Galleria Spazio libero Milano Italia.
Ottobre 2008 Galleria del circolo artistico Bologna Italia.
Giugno 2007 Galleria Cafmeyer Knokke-Heist Belgio.
Maggio 2006 Galleria Michel Vokaer "Au-delà du trait" Bruxelles Belgio.
Agosto 2005 Spazioarte Kube Gallipoli Italia.
Ottobre 2005 Palazzo Biscari “Canto della terra” Catane Italia.
Giugno 2004, Galleria Il Grifone "Opere recenti" Lecce Italia.
Agosto 2004 "Oltre i confini del segno" Palazzo Gallone Tricase Italia.
Ottobre 2003 Sagebrush Gallery Ketchum Sun Valley (U.S.A.)
Agosto 2003 Artisti per la pace Le notti della Taranta Melpignano Italia.
2002 Galleria Il Ponte S. Costantino Calabro-Vibo Valentia Italia.
Ottobre 2002 Galleria Il Grifone Lecce Italia.
Febbraio 2001 Galleria Tempietto "I Colori della Luce Brindisi Italia.
Dicembre 2000 Fondazione Memmo “Luce e Memoria”Lecce Italia.
Giugno 2000 Spazio Mauro Mori Milano Italia
Agosto 2000 Casa de la Uniòn Palma di Maiorca Spagna.
Agosto 1999 Villa La Meridiana “Orientalismo a Leuca” Santa Maria di Leuca Italia.
Agosto 1998 Sala Trono Palazzo Gallone “Due Pittori e il Salento” Tricase Italia.
Febbraio 1996 Les écuriesd’Hesdin “Il Giardino dell’Eden” con Pierre Klossowski, Raymond Mason, Enrico Bay, De Rosa e Régis Deparis Hesdin Francia.
Maggio 1994 Galleria Giorgio V "I quattro elementi” Parigi Francia.
CRITICA
Bandito dal paradiso
Banditi dal paradiso, cosa significa perdere il paradiso?
Chi perde il paradiso? Solo lo sguardo è capace di rispondere al senso di perdita, solo con gli occhi si assiste a ciò che va verso l’inesistenza della perdita. Ci sono, infatti, occhi chiusi che non si vedono in paradiso, perché muoiono; ci sono occhi rimasti aperti, che tuttavia non vedono il paradiso, perché non sanno guardarlo.
Forse la tragedia di un paradiso perduto sta negli occhi che, pur essendo aperti, non sanno più guardare in modo paradisiaco.
Il paradiso è davvero perduto per gli occhi che non lo vedono, non per gli occhi morti dal di dentro: la loro fine coincide, senza aderirvi, con la fine di sé come paradiso.
Il vero perdente, per ciò che ha perso, è, allora, lo sguardo dell’uomo, che non riesce a vedere un’alterità così intima e introversa da costituire il suo archetipo, definibile quindi come paradiso.
Il paradiso, infatti, non è un luogo, ma una condizione primigenia del luogo, il luogo di nascita, da cui si proviene, da cui non ci si separa, a cui si ritorna: il paradiso è, allora, il luogo dove lo sguardo insegue la sua miraggio, lo sguardo continua a voler vedere come visione, gli occhi chiusi tornano a vedere come nostalgia o incanto, ricordati in quanto già visto in passato, forse prima di nascere alla vista.
Il paradiso, in una parola, è la condizione dell'intimità, in cui anche la ferocia si traduce con il linguaggio materno della nascita e della nutrizione. È vero: la tigre corre per catturare la sua preda, ma l'animale catturato diventa il suo cibo, che si trasforma in cibo da tramandare. Ce ne sono altri, nati da lei come progenie, che si nutrono per andare dove la madre tigre non potrà più raggiungerli, nemmeno per essere riconosciuta.
Perdere il paradiso, quindi, non significa perdere il paradiso ma perdere la condizione di vivere in un'armonia paradisiaca. Senza la quale la vita si trasforma in ricerca senza scopo o in noia senza possibilità, o in realtà senza connotazione di meraviglioso.
Una società senza il meraviglioso diventa una massa orfana e priva di paradiso: è il suo ricordarlo o il farne utopie, che fa della vita una ricerca di rifugio, un approdo di conforto. Non c'è immagine di tenerezza che non rimandi a un paradiso ricordato; non c'è felicità riconquistata che non sia nel ritrovamento di un paradiso perduto; insomma, non c'è vuoto più frustrante e annoiato di quello di vivere secondo la ragione il giorno dopo, dopo il paradiso finito, distrutto.
L'occhio umano non ha nulla da scrutare, perché non c'è nulla su cui il suo sguardo possa fermarsi; resta su ciò che evoca, ci riporta a uno stato felice già guardato, il cui arco di tempo, inclusivo, denso e simile è la temporalità ritornata all'eterno ritorno del paradiso ritornato e ritrovato.
Quando il paradiso è perduto, però, l'occhio abdica alla tensione del guardare per riscoprirlo: cede il suo pulsare quieto e contemplativo allo scatto di una fotografia, che riduce, chiude il corporeo come un oggetto da custodire senza salvarlo, a depositarsi senza dargli vita, allontanandolo dal suo ambiente senza familiarizzarsi con esso.
Una fotografia ha il limite di far aderire l'oggetto alla sua condizione, comunicando necessariamente il suo essere epigono di ciò che senza paradiso è perduto.
La pittura di Pellicano traduce l'immobilità dello scatto della fotografia in un'immagine viva, all'interno della quale il concreto è ribaltato nell'intimità, in un atteggiamento oggettivato: e così avviene che lo sguardo dell'uomo non fissa, il diaframma fotografico non focalizza, perché l'occhio visivo degli abitanti del paradiso perduto, leoni, tigri, leopardi, ghepardi, cattura la scena.
Grazie ad essi, mentre parlano dall'interno della rappresentazione pittorica del Pellicano, lo sguardo ritrova la sua potenza visiva, la sua verità espressiva, una pacata tranquillità senza noia, senza angoscia, sintomi emotivi di chi guarda dall'esterno la paradisiaca perdita.
Se il leone fotografato perde il ruggito, quello dipinto dal Pellicano non riesce a ruggire: in paradiso non esistono prede, ma animali con cui convivere in pace, in armonia. L'artista restituisce agli animali uno sguardo di tenerezza, in cui il paradiso continua a vivere non come paesaggio, ma come gesto; non come esotismo ma come luogo familiare che non è mai andato perduto, poiché Dio ha creato il paradiso con gli alberi, con gli animali che lo abitavano.
L’uomo ha lasciato il paradiso, ha cercato di domare gli animali perché almeno ricambiassero con i loro canti del paradiso perduto: recinta zoo, gabbie, stalle modello, filma “habitat”, fotografa luoghi dove può restare il paradiso almeno quanto le tane, i nidi, il richiamo a vivere, come sempre è stato, fin dalle sue origini, è nel paradiso.
Ma quanto più l'uomo si recinta, tanto più il paradiso si nasconde fino a non esistere; più fotografa, più il paradiso abbandona la regione, la zona, perché il paradiso è armonia, dove si può vivere in modo paradisiaco.
Solo nell'arte il paradiso resta traccia: è nello sguardo degli animali, nel modo pacato con cui guardano l'uomo, che a quello sguardo risponde, invece, in modo inquietante, nel disagio di una visione perduta. bene e che l'uomo vuole possedere o recintare.
Osservando come mi sembrano guardare i leoni nei quadri del Pellicano, si dipinge nel mio animo un disagio esistenziale, tipico di chi ha perso il significato stesso di perduto. “Perdere” non significa infatti fare della propria vita una ricerca-pellegrinaggio per ritrovarsi dentro ciò che si è perduto e desiderare che questo ritorni?
Secondo l'uomo che è stato scacciato dal paradiso, anche gli animali che non lo hanno mai perso sono considerati espulsi: perché sono abitanti che non vengono mai scacciati e, quindi, fanno parte del paradiso. L'uomo che è stato espulso, li espelle a sua volta. Questo è il significato dello sguardo calmo e interrogativo negli occhi profondi degli animali del Pellicano con il nero delle pupille appuntite, intensificato nel giallo quasi ovale dei bordi degli occhi. Un paradiso perduto o rifiutato? Questa è la domanda.
Preferisco rispondere: rifiutato. Del resto, lo sguardo non tragico delle tigri del Pellicano non rimanda ad alcuna consapevolezza della perdita, quanto piuttosto all’indifferenza, alla mancanza di compassione verso chi viene espulso.
Il perdente è l'uomo che si smarrisce senza il paradiso. Il labirinto, infatti, prende il posto della paradisiaca familiarità dello spazio e del tempo: labirinto e sentirsi senza casa sono la stessa cosa, come l'esilio e la terra desolata.
La desolazione del giorno dopo, davanti al quale l'uomo chiude ipocritamente gli occhi per non affrontare la profondità dell'abisso, dalla cui compassione il paradiso lo guarda senza lasciarsi vedere.
Questo dramma degli sguardi si chiama non-esistenza. Un modo di vivere la propria responsabilità: non è meglio convincersi che il paradiso non è mai esistito, per consolarsi del fatto che non abbiamo perso nulla?
Questo è certamente un modo di pensare facile, al quale la vita moderna ci abitua. Del resto, non è forse con la morte del paradiso che ne indossiamo la pelliccia, con l'illusione di scaldare il freddo che sentiamo? Il freddo che viene da dentro il nostro essere uomini, ormai orfani e addirittura superflui all'interno del labirinto.
Carlo Alberto Augeri